L’altra sera a Venezia, durante il mio concerto, l’ho visto passare. Gli ho detto “ciao, Michael, ti amo”. Non accetto la morte assurda che gli è toccata, mi consola il fatto di saperlo sempre presente, sempre con noi artisti. E’ stato un grande, nessuno puà negarlo. Resterà come Elvis e Lennon, i fan hanno già cominciato a consegnarlo all’eternità.
La sua vita di successi e problemi, denaro e fobie, eccessi e, a volte, scelte assurde non sono il primo a dirlo è il prodotto di un’infanzia negata. Nel
Psiche bombardata, un padre che lo maltrattava, l’infanzia polverizzata dal lavoro. In certo modo, anch’io ho subito lo stesso esproprio. Sono venuto su in altra maniera e sono diventato un’altra persoma solo perché il mio successo ha fatto i conti con l’Italia, con 60 milioni di persone. Michael si è confrontato non con i milioni, ma con i miliardi di persone. Che in breve gli hanno impedito di uscire, di girare liberamente per la strada, di concedersi qualsiasi anche breve momento di privacy. Cose che, se sei normale, ti conducono alla pazzia; se sei ferito, come lo era lui, ti fanno diventare Jackson.
Al di là di ogni giudizio morale, Michael vive. Musicista, cantante, ballerino (dopo Fred Astaire, che lo volle incontrare, per me c’è solo Jackson) ha segnato un’epoca. Se n’è andato tragicamente come è vissuto. Il resto, comprese le lotte per l’eredità e il baccano mediatico sui debiti, è solo rumore.
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